Recensione
"Napoleone Bonaparte (1769-1821) e Antonio Canova (1757-1822) sono stati i protagonisti assoluti, nei rispettivi ambiti, di almeno due decenni tra Sette e Ottocento: il primo è stato un condottiero della statura di Alessandro Magno e di Cesare, capace di costruire dal nulla un impero che non ha avuto in seguito eguali; le opere d’arte del secondo sono state contese dalle corti di tutta Europa, ma anche dagli Stati Uniti, dall’Oriente, dall’Africa, come in vita non è mai capitato fino a quel momento a nessun altro artista. Sono stati anche due uomini di grandiosa, abissale solitudine: entrambi orfani di padre fin da piccoli ed entrambi incapaci di esserlo (a Napoleone l’unico figlio legittimo è stato strappato quando aveva meno di 4 anni e non l’ha mai più rivisto; Canova – che pure avrebbe voluto – non è mai riuscito a generare). Rigogliosi e immensi nel loro presente, non hanno ottenuto ciò che più avrebbero desiderato: un seme capace di sopravvivere loro. Canova e Napoleone si avvicinano e confliggono intorno a un nucleo incandescente: Maria Luisa, l’imperatrice bambina, dispensatrice, al contempo, di bontà e cattiveria. E’ lei che come un pendolo segreto si muove tra l’uno e l’altro in quell’ottobre 1810 in cui entrambi erano a Fontainebleau: l’imperatore aveva invitato lo scultore a corte perché ritraesse la sua seconda sposa, cui si era unito per avere un erede e rinsaldare l’alleanza con l’Austria; l’altro invece, uomo pio e tutto italiano, era lì per fare il suo mestiere e proteggere la sua purezza (il suo essere, in fondo, provinciale) dalle seduzioni del potere e della ricchezza. Falliscono entrambi e quelle tre settimane dell’ottobre 1810 sono l’innesco che incendia e distrugge le loro vite: non importa se muoiono rispettivamente undici e dodici anni dopo."
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