Recensione
Paolo Rossi si confessa. Ma rende la sua confessione a una divinità molto particolare: il dio dei ladri, il Bardo William Shakespeare. Tutti gli attori, i commedianti, i contastorie sono infatti ladri: di aneddoti e di idee, di verità e anche di menzogne. Per questo, la «versione di Paolo» è una storia rigorosamente apocrifa e anarchica, disseminata di occasioni e tentazioni, botte date e prese, donne amate e lasciate, poco venerati maestri e pessime compagnie di giro, ideologie e avventure di una sera o di una vita annaffiate da sobrie acque toniche corrette gin. Perché è vero che Gesù alle lusinghe del peccato resistette quaranta giorni, «però lui stava nel deserto, William, nel deserto non c'è un cazzo! Io stavo nei night...». Dal ricordo tragicomico delle serate alle Feste dell'Unità al dialogo in sogno con Berlinguer, dalla paternità spiegata a san Giuseppe alla difficoltà di ritrovarsi proprietario di un cane lupo antidroga, dagli incidenti di scena recitando Beckett con Gaber e Jannacci all'ineffabile pranzo con il poeta comunista cubano, ogni capitolo mescola l'alto e il basso, il cabaret del Derby e il Riccardo III, in un monologo mozzafiato che ha il tono della commedia dell'arte e la velocità delle montagne russe. E che conclude, tra sorriso e nostalgia: «Per mettere ordine nella mia vita ci vorrebbe un governo tecnico».
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