Recensione
La prima parte del volume spazia sul miscuglio dei temi prevalenti, dall’improbabile al reale, dal sacro al demoniaco, dal miracolo consolante all’enigma che brucia; la seconda, invece, suddivisa in sei capitoli o «lezioni», dà voce agli opposti coesistenti in ogni racconto: bene/male, luce/buio, santo/diavolo.
È come se le parole sparse da ogni «fabulazione» di stalla, trovassero una loro «significazione» soltanto in concetti che riconciliano con i problemi di ogni giorno, inquietanti, dolorosi, a volte feroci, attraverso l’artificio di presunte realtà accettate e condivise senza accusare contraddizioni.
Nella leggenda c’è tutta la «maestà del mondo»: uomini, animali, piante, natura inanimata, legame creaturale ma in urto continuo, tanto da essere costretti, ogni volta che la si approccia, a ricominciare sempre daccapo, a cercare i termini più adatti a ricomporla nelle sue modulazioni di echi e di silenzi, di sorprese, di smarrimenti, di colpi di scena, di consonanze e dissonanze. Può venire dalla pianura, dalla collina, dalle Alpi o dagli Appennini, dagli Abruzzi o dall’Alto Adige, può essere «questo» o può essere «quello» senza esauriente compiutezza, ma unico è il fittone creante: tentare di vedere oltre il fluire eracliteo dell’avventura umana. Allora anche i draghi, i mostri, le streghe, gli elfi, i nani, se da un lato inaspriscono il rapporto dell’uomo con l’innocenza primaria del mondo, dall’altro, nelle secche clausole che chiudono il racconto diventano le diffrazioni propaganti definizioni aggettivali come puntualizzazioni di credenze: il drago ab origine volante, il mostro comunque raccapricciante, la strega vecchia insidiosa, l’elfo armoniosamente etereo, il nano creatura ripudiata.
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